Esiste una relazione tra l’arte del Novecento e la Shoah, lo sterminio di circa 6 milioni di vittime ebree da parte dei nazisti durante il secondo conflitto mondiale.
Tra quegli innocenti, ci sono tantissimi artisti che avevano trovato spazio all’interno dei movimenti d’Avanguardia europei contemporanei.
La scuola di Parigi (École de Paris)
Nei primi anni del secolo, Parigi assume il ruolo di un centro artistico mondiale accogliendo giovani presenze, disomogenee per cultura e nazionalità, pronte a vivere di arte e vendere le proprie opere.
La città è aperta e tollerante verso gli stranieri che si sistemano a Montmartre e Montparnasse. Ben presto, questi quartieri ospitano svariati ateliers, tra caffè e locali da ballo in cui solitamente si riuniscono gli artisti. Gli stessi perfezionano le loro competenze nelle numerose accademie pubbliche e private, tra cui l’Ecole des Beaux-Arts, l’Accademia Colarossi e una scuola aperta da Matisse nel 1908.
PER APPROFONDIRE. VITA E OPERE degli artisti dell’Ecole de Paris
Gli artisti dell’Est
In questo contesto internazionale, spicca la presenza di ragazzi ebrei dell’est Europa che abbandonano le loro nazioni anche a causa delle sanguinose aggressioni di villaggi e comunità ebraiche (pogrom), iniziate a seguito dell’assassinio dello zar Alessandro II (1881) e perpetuate sia durante la Rivoluzione russa che da Stalin.
Le loro vicissitudini si somigliano. Essi hanno già studiato nei loro paesi di origine. Poi, il trasferimento a Parigi, il perfezionamento nelle Accademie, la conoscenza diretta dei capolavori del Louvre e delle opere degli impressionisti. In ultimo, la partecipazione ai Salon, i contatti con i mercanti d’arte, la rete di amicizie e gli incontri nei caffè.
In minore o maggiore misura, tutti traggono ispirazione dalla propria identità: le scene di genere e di vita popolare dei paesi d’origine, i paesaggi, i ritratti e le nature morte modulati con un linguaggio post-impressionista, cezanniano oppure cubista, espressionista ed astratto.
A dx, viceversa, la Composizione (1936) di Otto Freundlich segue tendenze astratte e geometrizzanti [collezione Maillet-Serri, Livilliers]
L’odio contro gli ebrei
Lo strisciante antisemitismo, tuttavia, ha radici profonde a partire dalla diffusione dei protocolli dei savi di Sion (un falso dossier elaborato su un presunto complotto ebraico per conquistare il mondo) e dall’Affaire Dreyfus (1894-1906). A breve, la situazione diventa insostenibile:
- nel 1931, in Francia, si diffondono le leghe nazionaliste, fasciste e antisemite;
- nel 1933, nell’anno in cui Hitler diventa cancelliere del Terzo Reich, viene aperto il primo campo d’internamento per gli oppositori politici a Dachau;
- promulgazione delle leggi razziali di Norimberga (1935) in difesa della “razza ariana”;
- leggi razziali in Italia (settembre 1938);
- nella Notte dei Cristalli, la furia nazista si scatena contro sinagoghe, negozi e cittadini ebrei (novembre 1938);
- apre il campo di concentramento di Auschwitz (1940);
- nel 1942, la Germania adotta la soluzione finale per liquidare definitivamente la presenza ebraica in Europa. E’ l’olocausto.
L’arte degenerata in mostra
Dopo la chiusura della scuola del Bauhaus del 1933, quattro anni dopo il regime nazista promuove una mostra itinerante dell’arte degenerata con l’obiettivo di mettere a bando la pittura e la scultura d’avanguardia moderna prodotta fino a quel momento.
L’evento vuole sollecitare il “disgusto e il più assoluto sconcerto verso le opere di queste pazze canaglie, i sottoprodotti alterati dell’impudenza, dell’inettitudine, della degenerazione” (sono le parole del curatore Adolf Ziegler). Al contrario, la nuova arte nazionale tedesca deve guidare alla definizione della razza pura e restaurare la pittura di genere, la tradizione accademica e i modelli classicheggianti. Al bando, quindi, ogni sperimentalismo e l’uso delle moderne tecniche della comunicazione visiva.
Otto Freundlich
La copertina del catalogo della mostra è una scultura di Otto Freundlich , L’uomo nuovo (1912), di chiara ispirazione cubista e primitiva (foto a sinistra).
D’altronde, Freundlich (1878-1943), originario della Pomerania, è il prototipo dell’artista disprezzato dai nazisti: libero viaggiatore, multidisciplinare in quanto teorico musicale e membro organizzatore di varie riviste culturali, dadaista, progressista, astrattista, fondatore di un’accademia privata (Le Mur). Dopo un arresto e un internamento, nel 1943 è deportato nel campo di Majdanek dove muore.
Max Jacob
D’altronde, anche in Francia, invasa dalle truppe tedesche nel 1940, il cosmopolitismo artistico presente a Montparnasse è considerato distruttivo per la cultura francese. La scena, affollata da meticci e da sprovveduti di talento, va purificata con un ritorno all’ordine e la fine dell’anarchia.
Ebreo della Bretagna, Max Jacob (1876-1944) è il simbolo di una libertà d’espressione e di vita. Per la critica xenofoba, è l’immagine della contraddizione: ebreo poi convertito al cattolicesimo, omosessuale, ideatore del Cubismo, poeta, romanziere e autore teatrale.
Max Ernst e Hans Bellmer nel campo di Millet
Il campo di internamento francese di Millet raccoglie numerosi intellettuali ed artisti considerati ostili al regime. In un primo momento, le autorità sono piuttosto benevole e alcuni hanno la possibilità di svolgere la loro attività come Ernst (1891-1976) e Bellmer (1902-1975).
Il primo ritrae a matita i compagni del campo come creature fatte di un assemblaggio di lime. Li chiama Les Apatrides (I senza patria, foto a sx). Molti tedeschi di religione ebraica, infatti, perdono la loro nazionalità, senza ottenerne un’altra. Diventano apolidi. Sono come questi strani esseri di Ernest con sguardi e gambe di uccello. Ma non possono volare perché sono stati privati delle ali.
Anch’egli di matrice surrealista, Bellmer è ossessionato dai muri che limitano la sua libertà. I lavori sono visioni di figure femminili intrecciate con le architetture del campo. Un triste presagio.
Disegni, schizzi e taccuini
La scarsezza dei materiali e degli strumenti a disposizione, d’altronde, sono una costante per i prigionieri. Del cecoslovacco Federico Kromka (1890-1942) resta il suo taccuino. Dell’ucraino David Goychman (1900-1942) c’è questo profondo e malinconico autoritratto dell’ultimo anno della sua vita.
Boris Taslitsky (1911-2006), sopravvissuto a Buchenwald, riesce a disegnare sul retro della circolari rubate alle SS. Un centinaio di questi fogli si salvano e sono pubblicati nel 1945.
Chagall e Soutine, gli emigranti russi
Al contrario di altri colleghi della cosiddetta Scuola di Parigi, Marc Chagall (1887-1985), nato in una famiglia ebraica povera e tradizionalista in una Russia sconvolta dai pogrom, sfugge al nazismo trasferendosi a New York grazie all’operato dell’Emergency Rescue Commitee. Ottiene popolarità e commissioni anche come scenografo.
La sua Crocifissione bianca (1938) è un chiaro racconto delle persecuzioni. Gesù non ha il classico perizoma ma uno scialle da preghiera della tradizione ebraica. Ai suoi lati, le scene di distruzione nei villaggi e in una sinagoga con le vittime in fuga. Alcune su un barcone, quasi una premonizione di ciò che succede oggi nel mar Mediterraneo.
A Montparnasse, Chaim Soutine (1893-1943) diventa amico di Modigliani e viene subito notato dai mercanti d’arte per l’uso disinvolto dei colori e per il crudo realismo dei suoi soggetti.
Famosi i suoi Buoi scorticati: le carcasse degli animali insanguinati sono il riflesso di una personalità tormentata e della consapevolezza della condizione ebraica in Europa. Con l’avvento del nazismo, si nasconde cambiando spesso domicilio. Ma un’ulcera allo stomaco lo costringe a recarsi in un ospedale parigino. Un viaggio lunghissimo per evitare la polizia. Riesce ad operarsi ma muore due giorni dopo.
Le donne dell’olocausto
Tra le donne internate o deportate, si distinguono Lou Albert-Lasard (1885-1969), espressionista amica di Klee e Kokoschka, e la polacca Regina Mundlak le cui tracce si perdono nel campo di Treblinka.
Vittime nel campo di concentramento di Auschwitz sono, invece, Nathalie Kraemer (1891-1943), esponente di una pittura figurativa che predilige i ritratti; Rahel Szalit-Marcus (1892-1942), illustratrice di libri degli scrittori yiddish e Alice Hohermann (1902-1943) specializzata in dolci ritratti femminili.
Le donne della Resistenza
Infine, Chana Gitla Kowalska (1907-1941) e Violette Rougier Le Cocq (1912-2003) sono le eroine della Resistenza francese. La prima si esprime con uno stile un po’ naif, sulle tracce di Henri Rousseau.
Violette è, soprattutto, una di quelle 2000 ragazze francesi di Ravensbrück che riescono a sfuggire alla morte. Rimpatriata nell’aprile del 1945, Violette torna con 36 disegni eseguiti a penna all’interno del campo che testimoniano direttamente la realtà del sistema dei campi di concentramento nazisti.
Le opere informali di Jean Fautrier
Nell’immediato dopoguerra, alcuni pittori sostengono che, dopo Auschwitz, non è più possibile rappresentare la figura umana perché cancellata per sempre nei forni crematori.
In particolare, Fautrier, membro della Resistenza, si è imbattuto in ostaggi uccisi e torturati. Rifugiatosi in una clinica per malati mentali nei pressi di Parigi, egli ricorda di udire, ogni notte, al di là del muro che lo separa dall’esterno, le fucilazioni dei tedeschi inflitte ai prigionieri francesi, i cui corpi senza vita vengono lasciati a terra.
Per l’artista, la figura umana va spolpata sino a giungere alla cancellazione del riconoscibile.
I suoi Otages (Ostaggi, 1942-45) sono la dissoluzione della forma nell’informe. Più che il segno, predomina la materia che evoca l’idea della carne ferita e straziata, emblema della sofferenza e dell’essenza stessa della natura.
APPROFONDIMENTO. Su Raiplay il documentario Disegni dall’olocausto, l’arte come estrema forma di resistenza
Salve,
Stavo cercando una traduzione italiana della poesia “Agli artisti martiri” di Marc Chagall e ho trovato la versione che avete scannerizzato sul vostro blog.
Sapete da quale catalogo o libro proviene la scansione?
Grazie mille,
Eva
Salve Eva.
La traduzione è tratta da “Montparnasse déporté, artisti europei da Parigi ai lager”, a cura di Sylvie Buisson,[Torino], Elede, 2007